di Nino Barone
Una dolce ombra di malinconia avvolge i ricordi degli anni ’80, un’epoca in cui la felicità aveva la forma rotonda di un pallone Super Santos. Come eravamo beati nell’innocenza di quei giorni, quando la strada diventava un campo da gioco senza confini e l’asfalto ci accoglieva a braccia aperte.
Le porte, quelle porte improvvisate fatte con le pietre, dove il gol diventava un’interpretazione filosofica. Avete preso il palo, dicevamo, con voce sicura e sguardo sprezzante, mentre gli avversari controbattevano con indignazione: “Neanche per sogno, è entrato!”
E le merendine della nonna, tesori zuccherati avvolti in una mappina, ci nutrivano l’anima tanto quanto lo stomaco. Pane con zucchero spalmato, un trattamento speciale che solo lei sapeva offrire. Maestra di semplicità, la nonna ci ricordava che la gioia poteva essere trovata nelle piccole cose, anche in un semplice morso di pane dolce.
Le ginocchia segnavano il passo del nostro cammino, diventando cronisti silenziosi delle avventure quotidiane. Escoriazioni e graffi erano medaglie di una battaglia vinta contro l’asfalto, una testimonianza della nostra dedizione al gioco senza limiti. Non c’era giorno positivo se le ginocchia non tornavano a casa con una storia da raccontare.
Gli anni ’80, un’epoca in cui i Super Santos erano eroi senza tempo, le strade erano campi da gioco infiniti e le ginocchia segnavano il confine tra il mondo reale e le avventure senza fine. Che tempi, che bei tempi. Un’epoca d’oro, eppure c’era un personaggio inconfondibile che faceva parte del quadro: la zia al primo piano. Il suo sguardo severo e il suo orecchio sempre teso per il minimo fruscio erano una costante nella sinfonia delle nostre avventure calcistiche.
L’asfalto, la nostra arena di gioco, risuonava di risate, grida di gioia e del tintinnio del pallone Super Santos. Ma quando le imposte del balcone della zia si aprivano, il silenzio cadeva come un’ombra, e noi, giovani artisti del pallone, diventavamo improvvisamente invisibili. I nostri passi leggeri ci portavano via come fantasmi, lasciando alle spalle un’atmosfera surreale di assenza di suoni.
E così, nel quartiere delle avventure senza fine, la zia al primo piano divenne quasi un personaggio mitologico. Una sorta di guardiana del silenzio, una dea dell’ordine e della quiete che si stagliava contro il caos gioioso della nostra gioventù.
Le sue lamentele, come fili invisibili, intrecciavano il tessuto della nostra esperienza. Era un gioco di sotterfugi, un balletto sincronizzato tra il suono e il silenzio. Appena il suono del pallone riempiva l’aria e il ritmo incalzante dei nostri piedi si faceva sentire, sapevamo che il timer invisibile era stato attivato. E quando le imposte cigolavano e si aprivano con un gemito, il nostro cuore batteva all’unisono, il silenzio calava e noi sparivamo come illusionisti di strada.
Eppure, a pensarci bene, forse dovevamo alla zia un po’ di gratitudine. Le sue lamentele erano un costante promemoria che nel gioco della vita c’era spazio per tutto: il chiasso e il silenzio, la gioia e la malinconia. Era un equilibrio fragile, una coreografia tra il nostro bisogno di esprimerci e il suo bisogno di tranquillità.
E così, mentre riflettiamo sugli anni ’80, non possiamo fare a meno di sorridere di fronte a quell’ironica danza tra noi, i ragazzini spericolati, e la zia al primo piano con il suo desiderio di quiete. Era un duetto senza tempo, una sinfonia di contrasti che faceva parte del ritmo travolgente di quegli anni d’oro.
E anche se i decenni sono passati e le strade hanno visto cambiamenti, una cosa rimane immutata: la nostalgia per quei momenti in cui il pallone rotolava sull’asfalto, le risate riempivano l’aria e la zia al primo piano faceva parte di un’arte straordinaria, l’arte di crescere tra le pieghe del tempo, tra il chiasso e il silenzio, tra la malinconia e la gioia.
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