di Nino Barone
Non avrei minimamente immaginato che quel bambino di quasi 10 anni potesse un giorno diventare “console” nella secolare Processione dei Misteri. Era il 1982 quando, per la prima volta, entravo in un mondo a me totalmente sconosciuto. Come quasi tutti i trapanesi, avevo visto i Misteri sfilare in via Fardella. Spesso aggrappandomi alla gamba di mio padre quando mi vedevo davanti gli “incappucciati”. Non ero il solo bambino ad avere paura di questi uomini mascherati che tante volte venivano persino chiamati “lupunara”, termine che accresceva ancora di più la mia angoscia a tal punto da non guardarli neanche. Per la verità, il Venerdì Santo, per me – scusate la metafora – era come vivere un calvario; mi faceva paura ogni cosa, anche le statue non mi erano per niente simpatiche. Invidiavo molto la tranquillità di mio fratello, di due anni più piccolo, ma evidentemente più coraggioso. La cosa sembrava non fargli effetto. Ricordo l’entusiasmo di mia madre nel vedere un suo parente in processione portare lo stendardo a lutto; ci diceva: “Ninu, Angilu, chiddu è me cucinu! Ch’è seriu picciotti! Infatti era molto serio e composto e non si voltava mai né a destra né a sinistra ma proseguiva passo dopo passo con gli occhi orientati in avanti. Era il figlio di lu zu Turiddu De Caru, storico battistrada della Flagellazione. Sono certo che nella mente di mia madre, anche solo per un momento, navigò l’idea di vedere un giorno i suoi figli sfilare in processione, avere quella soddisfazione che solo un genitore prova quando i propri figli fanno qualcosa di importante e soprattutto sotto gli occhi di tutti. Il suo entusiasmo però si contrapponeva alla mia noia, al mio disinteressamento, alla mia paura; io non vedevo l’ora di ritornare a casa che poteva avvenire solo dopo il passaggio “d’’u Signuri c’’a cruci ‘n coddu”. Estenuante serata, dunque, che come al solito finiva con l’addormentarmi sulla spalla di mio padre. Solo lì mi sentivo al sicuro, solo lì nessuna cosa mi faceva più paura. L’indomani tutto tornava come prima; i Misteri svaniti nel nulla e la cosa che ritenevo davvero importante era il giorno di Pasqua. Non certo perché si andava a messa ma solo per rivedere i miei cugini a casa della nonna paterna dove solitamente trascorrevamo le feste più importanti. Fin qui neppure l’ombra di un interesse verso la celebre Processione. Una semplice famigliola trapanese che come tanti si limitava a vedere i gruppi statuari nell’arteria principale della città. Nella primavera dell’82 la svolta. Alcuni componenti dei Metallurgici proposero a mio padre di entrare come console ma gli chiesero persino di portare in processione i suoi figli. Mio padre ne fu felice e accettò con entusiasmo l’incarico. Non so dire se questo fosse avvenuto per una vocazione specifica coltivata in silenzio, visto che mai aveva accennato a una volontà del genere, o semplicemente trascinato dal fatto di avere i figlioli in processione. Quale motivo abbia indotto mio padre ad accettare me lo sono chiesto anch’io tantissime volte ma questo, infine, è irrilevante perché da quel preciso istante la nostra vita cambiò completamente. Infatti mi ritrovai, a quasi dieci anni, primo “stendardista” del gruppo sacro “L’arresto”. Una cosa impensabile. Chi poteva immaginarlo. Quell’anno doveva esserci pure mio fratello, ma una febbre improvvisa lo aveva costretto a letto. Sarebbe spettato a lui il posto di primo stendardo. In realtà non c’è una gerarchia ben definita. Solitamente il primo è sempre quello più basso di statura. Ma il fatto di aprire la processione, di stare lì davanti a tutti, sotto qualsiasi riflettore, beh, questo, mi rese felice. Per uno come me non fu poi tanto complicato calarsi nel personaggio grazie allo spiccato senso di protagonismo. L’emozione era alla stelle ma dentro di me sentii un’immensa voglia di provarci, sentii di riuscire nell’impresa. Prima di entrare in chiesa feci le prove sotto gli alberi del viale Regina Elena, proprio alle spalle del Purgatorio, chiesa che ospita i sacri gruppi dei Misteri. Il mio istruttore? Michele Purracchio, console con un passato da “stendardista”. Di lui nutrivo parecchia soggezione e quindi tutto quello che mi diceva per me diventava testamento: “’un si mastica, ‘un si vivi, ‘un t’annacari, passu lentu e sempri drittu; ‘un taliari a nuddu, mancu a to matri e beddu tisu!”. Sento ancora il tono della sua voce, decisa e autorevole, pronunciare queste parole che mi sembra come se tutto questo fosse accaduto ieri. Indossavo un vestito scuro che i miei genitori avevano acquistato in un negozio di via Madonna di Fatima nella zona del quartiere San Giuliano; mi cadeva a pennello e ricordo sempre volentieri lo sguardo di mia madre quando lo indossai; nei suoi occhi lessi entusiasmo, orgoglio. Mia madre era certamente sicura che avrei fatto un figurone. Quel vestito costò ai miei genitori qualche sacrificio visto che fino a qualche giorno prima della Settimana Santa avevano provato ad averlo in prestito da qualche parente. In quel momento non c’erano abbastanza soldi per poterlo acquistare ma lo comprò ugualmente e non parve per niente pentita. Quella mattina avevo fatto la “frizione” ai capelli; era stata questa la richiesta specifica di mio padre al barbiere di via Cesarò. Appena indossai il vestito la prima tappa obbligata fu dalle nonne, le quali mi fecero tantissimi complimenti. Furono graditi pure quelli “d’’a signura Titì” vicina di mia nonna, che nutriva nei miei riguardi una particolare benevolenza. Mi sembrò insomma di vivere in un film, dove, finalmente, ero io il protagonista.