di Nino Barone
Da sempre, nel corso della mia esperienza attiva nell’ambito della Settimana Santa, mi sono chiesto come mai “Gigi” Barraco, personaggio celebre della processione, quando girava per la città con la sua inseparabile cascitedda chiedendo ai più l’“offerta” era solito introdurre la richiesta con una frase che mi ha sempre fatto pensare: ‘a festa d”i Misteri! Mi sono più volte interrogato sul significato degli “auguri” che gli addetti ai lavori si scambiano prima dell’uscita del corteo sacro. Che attinenza c’è, dunque, tra lo scambio degli auguri e una processione in cui si celebra il Cristo Morto? Sarebbe come dire a un amico a cui gli è scomparso un caro: “auguri e buon funerale”. Il pensiero comune di augurare all’altro una buona processione non soddisfaceva a pieno le mie perplessità sul significato di tale azione. Continuavo a chiedermi come mai un certo Fortunato Mondello, agli inizi del secolo scorso, nel suo diario scrisse: “Una processione che move a festa cittadini e forestieri”. L’esito iniziale di questa mia analisi riconduceva in modo, direi, esclusivo alla parola “festa” e gli auguri sono tipici della festa. I pii romani dei tempi più antichi non iniziavano nessuna azione importante prima di essere sicuri del consenso degli dei, gli auguri imploravano l’aiuto divino per la fertilità delle campagne. Sono dunque delle espressioni astratte, vaghi desideri o convenzioni? O più semplicemente una vera e concreta fedeltà a Dio attraverso il quale il cristiano auspica che chi riceve gli auguri possa davvero conoscere Cristo? Mi convincerebbe molto quest’ultima teoria se non fosse però messa in dubbio dall’origine stessa degli “auguri” che si colloca nelle tradizioni pagane. Cos’è invece la “festa” se non lo spazio temporale in cui l’individuo manifesta le sue fragilità e la sua assoluta dipendenza verso un essere divino da cui trarre protezione e garanzie. La festa come bisogno dell’uomo di rompere la monotonia quotidiana attraverso riti e cerimonie che possono essere individuali o collettive dove rigenerare se stessi e rinsaldare i legami. Adesso tutto mi è più chiaro. La processione dei Misteri è, dunque, una festa popolare dove usi e costumi, che provengono da tradizioni precristiane, apparentemente in conflitto col rito, si plasmano con lo stesso costituendo un tutt’uno ma dove la linea di confine risulta essere marcata determinando una duplice dimensione antropologica: il sacro e il profano. E se la festa fosse divenuta consistente nella sua forma più autentica con il coinvolgimento delle maestranze? Anche questa è stata una domanda che mi sono posto con frequenza. Maestranza = Mestiere, non è che la denominazione ufficiale di “Processione dei Misteri” è in realtà una rielaborazione linguistica al fine di dare alla cerimonia un’estensione religiosa? Potrebbe essere invece la “Processione dei Mestieri! È risaputo che a Trapani vi è la tendenza di identificare il gruppo scultoreo non per la scena che rappresenta ma per il ceto a cui è affidato: sta passannu ‘u firraru, sta scennu ‘u muraturi, ecc. A sostegno di questa tesi preciso che in lingua siciliana il termine misteri vuol dire per l’appunto “mestiere”. Non si può escludere che in un periodo antecedente alla costruzione dei gruppi avevano vita delle cerimonie legate alle maestranze, delle vere e proprie feste di categoria dove gesti e comportamenti, tramandati nei secoli, tali sono rimasti anche dopo la costruzione dei gruppi.
Oltre alla parola “festa” un altro termine che è stato per me spunto di riflessione è “mare” o per meglio dire “l’ambiente marinaro” che influenza notevolmente la processione dei Misteri non solo per la presenza di alcuni ceti della marineria trapanese ma altresì per un lessico utilizzato che deriva dai settori marittimi. La stessa annacata che i portatori imprimono ai gruppi scultorei al suono delle marce funebri riconduce al “mare”, al moto ondoso. Il movimento ondulatorio-sussultorio che si produce è simile al movimento di un’imbarcazione accarezzata dalle onde. La pratica dell’annacata o “mitico momento dell’unione” (cit. Salvatore Daidone), oltre a essere un elemento fondamentale della processione, forse il più spettacolarizzante, ci riporta ancora una volta alla “festa” e alla rigenerazione dei legami. I portatori collocati sotto le aste, a stretto contatto tra loro, divengono un unico corpo, dove ciascuno va in aiuto dell’altro, dove la fatica viene distribuita in parti uguali e dove braccia intersecate tra loro rigenerano legami.
Proseguendo l’analisi lessicologica della processione è doveroso citare un termine che si utilizza ancora tra i più anziani nonostante si trovi già in fase di declino tra le nuove generazioni: arrancata. Deriva dal tedesco rank che vuol dire “storto”. L’arrancata è infatti quella particolare accelerazione dei portatori caratterizzata dallo strisciamento dei piedi quando si procede senza l’accompagnamento musicale. Tale termine ci riconduce ancora una volta agli ambienti marinari: arrancavano per l’appunto i rematori nelle galee producendo forza con l’inchinarsi sulle anche. A questo termine, oggi, in modo particolare le fasce più giovani, si preferisce il meno elegante scarruzzari. Netta è la differenza tra i due lemmi. Il primo ci riporta alle origini contribuendo a conservare l’identità marinara della processione; il secondo, di radice moderna, bene si adatta al contesto processionale recente dove la pratica del “recupero” ha assunto una tale importanza favorendo un’esecuzione più rapida sia nel passo che nel movimento.
Altro interessante termine con il quale, nella processione dei Misteri, si indica la squadra dei portatori è “ciurma”. La sua etimologia si colloca nel greco keleusma e ci si riferiva a una moltitudine di rematori di una galea, spesso in condizione di schiavitù. Oggi, viene utilizzato in riferimento all’equipaggio di una nave. Anche in questo caso vi è un chiaro accostamento alla marineria.
Poi vi è “vara” che trova il suo corrispettivo italiano nel termine “fercolo”. Deriva dal latino “vara” che vuol dire sostegno, forcella, cavalletto. Sono molti, a causa dell’assonanza, a confonderlo con la parola “bara” che ha, invece, una probabile derivazione sanscrita col significato di “portare”. La vara, dunque, non è altro che quella base lignea sulla quale vengono fissate le statue sacre per il trasporto processionale. Il verbo “varare” ci riconduce per l’ennesima volta agli ambienti marinari per lo specifico significato di “tirar da terra in acqua” come di solito avviene con le imbarcazioni.
Estrema importanza assumono, dunque, simbologie e linguaggi che insieme ai gesti, mimiche e posture chiudono il cerchio di una tradizione che vive nel sentimento popolare. Da lì comincia nuovamente la mia curiosità e la mia riflessione su un altro termine: teatro. La stessa città di Trapani appare come il palcoscenico ideale per dar vita a una delle più imponenti manifestazioni di tipo religioso che si svolgono nella Settimana Santa. La teatralità dei partecipanti è verosimile, naturale, spontanea. Le primordiali espressioni di questo genere erano, infatti, recitate. Oltre a rifarsi il look, cosa che ci riporta nuovamente alla “festa” prendono vita una sfilza di segni e movimenti che assumono, ciascuno dei quali, specifici significati. Se un console, nel corso della processione, alza in alto il braccio scuotendolo in avanti indica al collega di fronte che bisogna muovere il corteo con tempestività dal momento che il ceto davanti è quasi svanito nel nulla. Quando invece si intravede tra il pubblico un personaggio di spicco della categoria, ecco che un console si posiziona nelle adiacenze del prescelto. Tale collocazione è già di per se un segnale che indica al caporale dei portatori di “girare” la vara in quella direzione per omaggiare il noto contribuente. Se poi questo risulta essere un “pezzo grosso” un altro console si occuperà, attraverso un trimulizzu di jiditu, di avvisare il maestro della banda affinché cominci un’esecuzione musicale sebbene non sia il proprio turno. Tutto questo avviene senza pronunciare mai una parola. Il risultato del plateale omaggio è racchiuso nel ricevimento di un’offerta, quella che, nel gergo della processione, si è soliti chiamare picaccia. Gesti, posture, mimiche sono elementi che caratterizzano il linguaggio non verbale della processione. La stessa sequenza organizzativa dei vari componenti che formano il corteo processionale riconduce al teatro: la vara come la scena rappresentata, la banda come l’orchestra, i fedeli come la platea. La collocazione del corpo bandistico dietro al gruppo avvenuta negli ultimi anni ha notevolmente snaturato la dimensione teatrale dell’evento. Il Venerdì Santo anche le statue dei gruppi scultorei, adornati con suppellettili in argento, sembrano animarsi dopo quel lungo periodo di sosta dove, spogli da ornamenti argentei, attendono di entrare in scena.
Dunque “Festa”, “Identità marinara” e “Teatro” sono le dimensioni antropologiche racchiuse nel rito dei Misteri e che fanno di quest’evento non una processione dal carattere religioso dominante, ma una sacra rappresentazione colma di fervore devozionale.
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